mercoledì 17 novembre 2010

Paleosardo. Le origini linguistiche della Sardegna neolitica di Blasco Ferrer

di Alberto Areddu

Il libro di Edoardo Blasco Ferrer è stato edito dalla De Gruyter.
Secondo Blasco Ferrer nella toponomastica sarda vi sono le tracce dell’arrivo in Sardegna di genti iberiche nei tempi paleolitici e neolitici.
Blasco sostiene la sua tesi prendendo toponimi oscuri (facenti capo a non più di una ventina di radici) e collazionandoli a "chiare" parole del basco (il quale essendo, come si dice da secoli, una lingua isolata, non si ribellerà a tali accostamenti).
Mi voglio soffermare su alcuni casi. Secondo Blasco nel fantomatico toponimo "Funtana Gorru" (de Mola) di Ulassai, si troverebbe l'aggettivo basco gorri "rosso", visto che talora le fontane, per ragioni chimiche, possiedono, dei composti rameosi che le fanno apparire così, e c'è una certa casistica di toponimi del tipo "fontana rossa". Ora appare ben strano che una parola latina (fons, fontana) si possa legare direttamente a un aggettivo prelatino (non è il classico toponimo tautologico, tipo Mongibello, che è mezzo latino: Mon(s) e mezzo arabo Gibel 'monte), qui siamo in una macedonia assoluta. Oltre a ciò, osservo: Tale Funtana Gorru di Ulassai (che riporta Paulis nel 1987 e lo emenda, perché inesistente in loco, e infatti non si trova affatto cercando tale forma on line), e Blasco riprende pro domo sua, pare in effetti inesistente; oppure se risulta unito a "de mola", verrebbe da pensare semmai a un originario: "funtana (a su) corru de (sa) mola" 'fontana all'angolo della macina', che per le note semplificazioni, che stanno dietro alla raccolta e inquadramento dei toponimi agrari, è stato ridotto a: Funtana Gorru de Mola. A Buddusò c'è: Funtana corru chelvinu, in cui palesemente non c'è nulla di rosso, bensì la rastremazione di: Funtana (de su) corru chelvinu 'fontana del corno di cervo'.
Eppure una base simile appare spesso a indicare fonti e sorgenti, vi indico i posti: Gurrai, località a 100 mt dalla fontana di Gaghisi (Sarule) (informazione di Michele Sirca)
Burri (nei condaghe: Gurri) monte e sorgente di Bonorva (cfr. P. Merci, Condaghe di San Nicola di Trullas, Nuoro 2001, pp. 170-171: Campo Javesu et (de) Gurri (on line: http://www.sardegnacultura.it/documenti/7_26_20060401174021.pdf) (altri dati nel mio saggio)
Gorrispai/Gurrispai 'luogo di sorgenti a Nuoro' (Pittau, L'origine di Nùoro)
Cosa osservare in costruttivo?
1) La base è gurr- (e dunque non gorr-, lo vediamo da Gùrri di Bonorva, dove l'accento cade sulla vocale tonica, che non è modificabile in sardo, diversamente dalle atone)
2) I luoghi in questione non indicano luoghi rossi, né la locale acqua è rameosa
3) Persino la supposta chiave basca GORRI 'rosso, vivo' è sotto indagine, nel senso che si pensa che sia una parola attinta dal paleoeuropeo, cfr. infatti slavo gori 'fuoco' gorn 'forno' goreti 'bruciare' (che ha etimo indoeuropeo)
A mio parere è più verosimile l’albanese: gurrë 'fonte'.
Andiamo oltre. Il grande scopritore dell'Iberia individua un elemento -mele (o -nele) esempio in Macu-mele, Mara-mele, che sarebbe il basco mele/bele 'nero'; ora non poteva scegliere di peggio, ignorante com'è di indoeuropeistica il Nostro tralascia di dire che la base mel-, melə- 'nero', è praticamente certo che è indoeuropea, vedi greco melas, antico indiano malina, baltico melna ecc.; e la stessa cosa vale per Ilune, che sarebbe il basco illun 'oscurità' (senonché ilu- è attestato come 'nero, sporco' anche in molte lingue indoeuropee, dal greco alle lingue slave).

E anche per basco haritz 'quercia' = toponimo sardo di Aritzo (al quale Pittau e io tuttavia abbiamo contrapposto differenti alternative), qualora fosse giusto il collegamento del Blasco, osservo che il nesso sk- in diverse parole albanesi ha prodotto il suono aspirato h- (ci sono casi financo nel sardo), e dalla radice indeuropea *(s)ker- 'tagliare', l'albanese ha prodotto harr 'potare, recidere', onde per cui l'isolato e opaco semanticamente, basco haritz potrebbe essere un qualche antico indoeuropeismo (: *skar-istos, o *skar-ikios), ben motivato formalmente e semanticamente (: "il corteccioso, il tagliabile") (cfr. slavo: kora 'corteccia', korice 'buccia, crosta', koreti 'diventare duro').

E che dire della località "Riu bide" che viene contrabbandata come il basco bide 'cammino, strada', quando la latinità ci propone il "rivo Vite", presso l'Esino? (http://it.wikisource.org/wiki/Istorie_dello_Stato_di_Urbino/Libro_Primo/Capitolo_Quarto)

Insomma quel che Blasco vuole utilizzare a favore della sua ipotesi, mi pare che gli si rivolta contro.

domenica 7 novembre 2010

La pastorizia nuragica

di Mauro Peppino Zedda

A proposito dei contenuti dell’economia nuragica Lilliu ha scritto: «Non v’è dubbio che i nuragici erano pastori stabili, proprietari di greggi e di terre. In vaste tanche private o comunitarie pascolavano numerosi capi di bestiame bovino, caprino, ovino, suino; e i loro custodi, cantando alle stelle nelle notti luminose, ne invocavano prosperità e incremento. Greggi e terre furono la costante preoccupazione di difesa dei sardi antichi. L’organizzazione dei nuraghi nacque anche da queste esigenze ed urgenze di possesso e di sicurezza terriera ed armentarie di grossi pastori» (Lilliu 1988: 667) Qualche riga dopo aggiunge: «Lo stato sociale della Sardegna nuragica si fondava così sul prepotere d’un tipo sociologico che potremmo chiamare patriarcale (dove patriarca è il capo tribù e il principe, salvi il diverso modo e grado di potere). Lievitano ancora resistenze matriarcali della più antica civiltà contadina diminuita al livello del governo “familiare” della madre (specie là dove i pastori erano costretti alla mobilità della transumanza). La tradizione agricola neolitica femminile e “materna” è altresì radicata nelle forme magiche e religiose (anche pubbliche) nelle quali la donna è sacerdotessa, sibilla e depositaria di virtù mediche. Ma nel governo superiore della tribù, e poi del cantone principesco, nei tratti fondamentali della struttura economica e dell’assetto politico-sociale, nel processo storico della libera comunità e del popolo organizzato, il peso sostanziale e l’assoluta responsabilità risiedevano nel cervello e nell’azione di una società di maschi nel fisico e nello spirito aggressivo, con tendenza al dispotismo» (Lilliu 1988: 668). E continua: «La divisione distrettuale portava, spesso le tribù cantonali a scontri e guerre locali, a cui era movente lo spirito aggressivo delle comunità pastorali, desiderose di estendere il proprio territorio a danno altrui. Nel pastore stabile nuragico non si è spenta del tutto l’antica fiamma del pastore nomade portato dalla sua natura avventurosa e irrequieta, alla violenza, al possesso delle altrui cose e al dominio sul ricco e pacifico vicino» (Lilliu 1988: 669).
Dagli scritti di Lilliu emerge con chiarezza un pensiero notevolmente controverso. I suoi ragionamenti si fanno confusi nel cercare di conciliare i contenuti della sua interpretazione del nuraghe con una pastorizia transumante. Lilliu immagina una stratificazione sociale governata da una gerarchia costituita da principi cantonali, capotribù e capofamiglia; prospettando l’idea che il mondo nuragico fosse tutt’altro che normalizzato e che il bisogno di terre generasse uno stato di guerra continuo che vedeva coinvolte sia le diverse comunità cantonali sia le tribù interne al cantone.
Il suo discorso è tutt’altro che lineare e fa tenerezza osservare come la logica del nuraghe fortezza lo abbia portato a teorizzare una pastorizia stabile che causava tensioni guerresche e come non si sia accorto che la transumanza è in antitesi con la teoria dei cantoni in guerra l’uno con l’altro.
Su alcuni elementi concordo: che il sacro fosse gestito dalle donne e che nell’economia nuragica avesse una notevole importanza la pastorizia.
Nei tempi che precedono la pratica della coltivazione del foraggio e di cereali destinati al bestiame, nella Sardegna montuosa la pastorizia non poteva che essere nomade. Aveva bisogno di luoghi dove trovare sollievo ai rigori dell’inverno. E di luoghi in cui, in sostituzione dei pascoli riarsi dalla siccità o dal gelo invernale, si potevano accudire gli armenti con le fronde degli alberi.
In realtà la geomorfologia e climatologia dell’Isola, indica come impercorribile l’idea che nel periodo nuragico vi fosse una pastorizia stabile.
Immagino dunque, che nel mondo nuragico vi fosse una pastorizia transumante, con una transumanza che veniva esercitata entro i confini delle tre tribù nuragiche (Ilienses , balari, corsi).
Il fatto che l’allevamento del bestiame possa essere considerato come la spina dorsale del sistema produttivo nuragico non è un volo pindarico, ma un’interpretazione che emerge dall’analisi dei ritrovamenti archeologici.
Per quanto riguarda i resti di ossa animali, i dati finora acquisiti indicano la seguente presenza percentuale: 14% bovini, al 59% ovi-caprini (pecore, capre, mufloni), al 20 % suini (maiali e cinghiali) e al 7 % Cervidi (Perra 1997, Fonzo 1992). Di recente Ornella Fonzo si è espressa nel seguente modo: «Sulla base dell’analisi, tuttora in corso, dei reperti archeologici provenienti da alcuni siti, possono essere fatte le prime considerazioni riguardanti l’economia durante il BR, basata essenzialmente sull’allevamento dei bovini, suini ed ovicaprini, con apporti non trascurabili della caccia, essenzialmente al cervo e al cinghiale, ma anche al prolago, al riccio, alla volpe e agli uccelli, soprattutto nella parte meridionale dell’isola, che diventeranno ancora più significativi nelle fasi successive» (Lo Schiavo et al. 2004). Aggiungo che i maggiori resti del meridione sono dovuti alla natura geologica del territorio. Negli acidi suoli basaltici e granitici le ossa si “sciolgono”, mentre si conservano meglio in terreni basici di origine calcarea. Dunque non vi sono ragioni per dubitare che anche nel settentrione dell’Isola la pastorizia e la caccia fossero diffuse non certamente meno che nel meridione.