martedì 19 gennaio 2016

Metti una sera a cena con Pinuccio Sciola


di Franco Laner

Da tempo desideravo rivedere il Maestro Sciola, che avevo conosciuto una quindicina d’anni fa a Bonorva, durante una sua conferenza di ritorno dall’Isola di Pasqua e poi reicontrato a Mestre.
L’occasione è stata il corso sulle strutture di legno per gli ingegneri organizzato a Monastir, a pochi km da S. Sperate, ospiti di Teknolegno. L’amministratore della ditta, ingegnere R. Usala, conosce bene il Maestro e l’ha invitato a cena. Al contrario Pinuccio ha voluto ospitarci e, oltre al sottoscritto e Usala, si sono uniti altri due docenti del corso, ingegner A. Pantuso e G. Lauricella.


Ebbene ci ha ospitati nel suo grande e incasinatissimo studio: dappertutto statue, di pietra, di legno, di laterizio, libri, giornali, disegni, manifesti, foto e poi modelli, schizzi, maquette, plastici, scaffali pieni e in terra casse…un lungo tavolo, anch’esso stracarico di libri, riviste, giornali, lettere, fogli di appunti e bozzetti, trapassava gli archi di tre locali, terminando davanti ad un caminetto, acceso di vivace fiamma. L’estremità del tavolo era preparato con cura, sobria ed invitante. La tovaglia era ravvivata da segni discreti e riquadri tenuemente colorati.
Prima però di sederci, ci ha portato all’esterno: anche qui pietre incise e altre sculture. Su di un banco, sotto la tettoia, c’erano pietre sonore di varia altezza, quasi grattacieli in miniatura che insieme componevano una metropoli contemporanea e suggestiva.



Il Maestro si è posto dietro il banco, assorto, con le mani quasi giunte, immerso in preghiera. E poi il gesto d’effetto: sputatosi appena sulle mani, le ha sfregate, con lentezza, più volte. Come chi, un tempo, accingendosi ad un lavoro impegnativo –tagliare un albero o impastare ghiaia e cemento- inumidiva le mani per inforcare l’attrezzo. Ha dunque accarezzato le superfici delle pietre segate in profondità in rebbi geometrici e di diversa lunghezza.
Ne è uscito un suono, lungo, acuto e poi dolce, ancestrale, siderale. Il suono provocato non ha iati, si prolunga e sovrappone. I timpani, quasi feriti da ultrasuoni e infrasuoni, sono sollecitati e tesi, piacevolmente lacerati. Portano dentro al cuore struggimento ed emozione. Il tempo è sospeso e non ha tempo.
“In principio era il Suono” proferisce semplicemente. Azzardo: “In principio era il Verbo”.
“No -ribatte- il Suono. Il Suono è nella pietra che preesiste prima del tempo. L’ho liberato, evocato, sprigionato dai vincoli cosmici. Il Suono, capace di negare il frastuono del primordiale Big-Bang! L’armonia può creare, non il rumore”
Fin che torniamo a tavola, faccio osservare che un elemento snello, come il sottile parallelepipedo di calcare, sollecitato, vibra e le onde energetiche percuotono il timpano e così noi percepiamo il suono.
“Non mi interessano spiegazioni scientifiche -mi blocca- o si percepisce l’armonia consustanziale alla pietra, la rievocazione del Tempo e l’invito alla meditazione, oppure si resti fedeli al tecnologico e freddo Prometeo, incapace di tendere l’orecchio alla melodia primordiale”.
Ci porta una fumante zuppiera. Un minestrone di verdure autunnali. Trionfa il cavolo, attaccato da altri sapori, finocchietto, zucchina, carota -poche rotelle che macchiettano di colore il biancore dominante- sottili schegge di patata, cipolla, costa e forse porro e una pastina, figlia minore della fregola. Dal fuoco del caminetto trae fette di pane abbrustolito su cui ci invita a passare un filo d’olio.
Ovvio il bis.
Si allontana e rientra con una portata di finocchi lessati punteggiati da briciole di tuorlo. Delicato, in contrapposizione a  scaglie di pecorino, stagionato e profumato che saccheggiamo, mentre i bicchieri di Cannonau sembrano svuotarsi per magia. È il momento che aspettavo e comincio:
“Quale reazione hai avuto quando alcuni studiosi hanno identificato, nel retro della grande pintadera del Genna Maria che hai scolpito  e posta all’entrata del museo archeologico di Villanovaforru, segni nuragici o addirittura scrittura? Ti hanno tacciato di aver manomesso un reperto archeologico!”
“Ho voluto lasciare la mia firma, ma senza nessun intento falsificatorio su una pietra che ho estratto. Pura interpretazione artistica…e con rispetto e devozione alla Nostra Cultura di Pietra! Sono comunque contento che i segni abbiano ispirato una decifrazione linguistica. I segni devono scatenare significati, portare un contributo metafisico”
“E dei cosiddetti guerrieri di Monte Prama? Li hai anche tu accolti quando sono arrivati al Museo di Cagliari, imbragati e artatamente rimessi in bella…”
“Volevo salutare Thabor, l’antico scultore e rendere omaggio ad un collega, anche se ingenuo e neofita. Di queste sculture lamento l’eccessivo clamore mediatico, oltrettutto nemmeno sarde e di modesta valenza artistica. Troppo fiato sprecato, incommensurabilmente distanti dall’arte e dall’architettura nuragica. Spazio e impegno devono essere al contrario dedicati allo straordinario patrimonio nuragico”.
All’illazione che fosse direttamente coinvolto nella “messa in bella” di qualche testa, nemmeno mi risponde, come non sapesse nemmeno a cosa volessi alludere.
Sulla fonte della sua produzione artistica e accostamenti che la mia poca dimestichezza scultorea mi suggerisce, prende immediatamente la distanza da Titino Nivola. In sintesi, partendo dal concetto di unicità dell’opera d’arte, vede nella produzione dell’illustre oranese troppa facilità riproduttiva e quindi ci sono troppe opere di Nivola in circolazione, prive di anima. La riproduzione non può possedere l’anima. Mentre accetta l’accostamento con Brancusi, con cui ha avuto frequentazione parigina.
L’artista invece che condivide con lui l’eccellenza sarda e non solo, è Maria Lai. La discussione, accesa dagli altri interlocutori fa stazione sulle effettive difficoltà economiche di un artista, esposto a debitori e creditori insolventi, come sempre, non solo ora, in tempo di crisi. Esclama esasperato: “Ho un sogno: di essere incarcerato! Sto pensando al misfatto che potrei compiere per godere del soggiorno coatto, ma tranquillo e pieno d’ozio produttivo!” Il discorso scivola sul prezzo dell’opera d’arte. “Io vendo a peso” Interpreto la battuta come provocazione, anche se insiste sulla posizione. Ma anche a proposito della necessaria unicità dell’opera d’arte, che per me rimane tale anche se riprodotta, non ammette repliche e ci lascia perplessi.
Traspare nei suoi movimenti, nei gesti, la pacatezza di una serenità interiore. Ci legge alcuni pensieri, dove il Tempo, la Natura, l’Anima, sono protagonisti. La Natura reclama oggi un altro approccio di intimità e reciprocità. Capisco che possa affermare di essere nato da una pietra, di essere una pietra!
Ci dice del suo progetto di accostare lungo tutta la Carlo Felice, da Cagliari a Sassari, ai già tanti monumenti nuragici, nuraghi, pozzi, come Santa Cristina, opere scultoree di artisti internazionali e per questo sta contattando le Ambasciate.  Una esposizione lunga 230 km !
È tardi.
“Ti possiamo dare una mano per i piatti?”
“ Prego, fate pure!”
E così avvenne che l’ing. Pantuso potrà dire di aver lavato i piatti a Sciola!
Nell’accomiatarci mi attrae un computer acceso. C’è l’immagine della facciata di pietra del nuovo Parlamento a La Valetta, Malta, dell’architetto, senatore a vita, Renzo Piano.
“Ma ti ha copiato!”
“Diciamo -risponde Pinuccio- che si è ispirato alla mie sculture. Mi fa piacere essere copiato: si copia ciò che vale! Anch’io traggo ispirazione dalle ossa della madre terra!”
Un’ultima battuta: “Complimenti per lo squisito minestrone!”
“Un artista è tale se è anche un cuoco”
Condivido. Sempre di cultura si tratta. E mentre gli stringo la mano, noto che ha indossato una raffinata sciarpa. La temperatura esterna si è fatta rigida. Anche l’abbigliamento è cultura
Arricchiti, affrontiamo i dedali delle viuzze di San Sperate e finalmente un’insegna indica Cagliari. Poca segnaletica? Macché, un inconscio desiderio di rimanere dove si sta bene, mentre l’ingegnere ripete: “Ho lavato i piatti a Sciola!”


domenica 17 gennaio 2016

Salvatore Satta a RAI 3

 

di Franco Laner

Da domani, lunedì 18 gennaio, a Radio Rai 3, alle 17, nella trasmissione ad “Alta Voce”, l’attore Toni Servillo leggerà il capolavoro (per me e molti altri) della letteratura sarda “Il giorno del giudizio” di Salvatore Satta. Ecco la locandina RAI .





La voce di un grande attore per riscoprire una delle opere chiave della narrativa italiana del Novecento. E’ stato infatti Toni Servillo a proporre di registrare negli studi radiofonici di Napoli quello che George Steiner ha definito “uno dei capolavori della solitudine nella letteratura moderna, se non addirittura di tutti i tempi”, un romanzo di cui l’attore è appassionato ed esperto conoscitore, tanto da spingerlo ad intense esplorazioni, se non veri e propri pellegrinaggi letterari, “in quel nido di corvi che è Nuoro”, sulle tracce del mondo raccontato da Satta, tra le ombre dei suoi personaggi, i destini di giovani e vecchi, ricchi e miserabili, intellettuali e matti di cui è composto questo potente racconto, a metà tra Spoon River e Gattopardo. Un libro che non ebbe alcun successo, quando fu pubblicato nel 1977 dopo la morte dell’autore, da una casa editrice specializzata in opere giuridiche (Salvatore Satta è stato un grande giurista, sul suo monumentale commentario al Codice di procedura civile si sono formate generazioni di studenti), ma suscitò invece l’entusiasmo di Giuseppe Calasso che lo ripubblicò tre anni dopo. Ne nacque un caso letterario, tradotto in 17 lingue.
Un viaggio in un mondo scomparso, in un tempo inesorabile, sospeso tra arcaismo e modernità nel quale ci guida la voce di Toni Servillo, in un suo speciale percorso attraverso i classici italiani del Novecento, che ha portato il grande attore a proporre negli anni passati la lettura radiofonica Ad alta voce degli “Indifferenti” di Moravia e del “Giorno della civetta” di Sciascia.


venerdì 15 gennaio 2016

Dai telamoni all'aborto

 

di Franco Laner


La risposta all’evidente constatazione che le statue di MP non possano stare in piedi me l’ero fatta ed ora disfatta. Duro rigettare ciò che mi pareva plausibile e sostenibile fino a maturare un’altra congettura, ma i recenti reperti del 2014 mi inducono a riformulare l’ipotesi.
Se qualcosa non sta in piedi, questo era il ragionamento che mi ha portato all’ipotesi di telamoni, gli faccio agire una sollecitazione di compressione, in pratica un carico superiore, concentrato e stabilizzante, per esempio quello dato dall’architrave. Ma gli scavi fin’ora non hanno restituito resti di tempio (qualche fusto di colonna o capitello, mi pare, ma li chiamano modelli di nuraghe!) o altre strutture. L’equilibrio potrebbe essere fornito da una qualche “stampella”, ma non ci sono segni di protesi, muri, agganci, legature, sostegni
Ci sono molte forme di innamoramento. La più usuale è quella nei confronti di altre persone, un luogo, una teoria. Pericoloso l’innamoramento collettivo verso un’ideologia o religione. Pericoloso perché porta all’intolleranza, all’integralismo, al fanatismo. Ci si innamora appunto anche di una ipotesi, perché ritenuta intelligente, esplicativa, bella o singolare. Oppure semplicemente perché soddisfa la nostra ambizione e perciò rigettarla non è né facile, né semplice.
Per quanto il primo amore non si scordi mai, la mia ipotesi di telamoni deve lasciare il passo ad una nuova congettura.
L’ipotesi (non una teoria) che ho avanzato recentemente su questo blog sui guerrieri di MP fa seguito appunto all’ipotesi di telamoni che sostenni per risolvere la questione che ancora non ha risposta: le statue, così riassemblate ed esposte, non possono stare in piedi. Se non possono stare in piedi non sono allora mai state messe in piedi. Ma perché dovrei fare statue destinate a non stare in piedi? E’ inipotizzabile, assurdo e pertanto tutti pensano che siano state messe in piedi. Ovviamente anche i due scultori, Rockwell e Mondazzi. Perciò, pur non capendo come si reggessero, si prodigano nella ricerca di sostegni o ipotizzando pareti, muri, sostegni rimossi, buchi, agganci ecc.: non ci sono risposte o segni e alla fine si meravigliano e lodano la grande capacità e perizia di chi è riuscito nell’impresa. Peccato che questa affermazione sia ritenuta come prova determinante per l’esaltazione e la priorità mediterranea delle statue di MP!
Anch’io, pensando a telamoni, schiacciati superiormente dall’architrave, in fin dei conti cercavo una soluzione perché non ho mai, nemmeno lontanamente, pensato che non siano state collocate in piedi.
Se alla fine sono giunto ad altra conclusione è perché la trovo consequenziale a quanto conosco sui reperti, luogo, risultati, deduzioni archeologiche, ecc. ecc.
L’ipotesi, in altre parole, è dettata dalla mia immaginazione, non dalla fantasia (parte patologica dell’immaginazione), che cerca di mettere insieme indizi. Spesso, specie nei blog, si legge e si scrive in fretta e distrattamente e non si pesano le parole. Ad esempio non ho mai parlato di falso, bensì di rimessa in bella, ritocchi, aggiustamenti. Falso significa che è stato rifatto ex novo. Certamente se il ritocco è profondo, autoreferenziale, rasenta il falso, pur essendo il materiale autentico. Ancora, gli indizi che posseggo sono limitati  e quindi anche la deduzione è più difficile. Un conto è ragionare su foto, resoconti, descrizioni, altro è vedere e toccare. A Monte Prama ci sono stato prima degli ultimi scavi e ho visto solo le lastre di chiusura di alcuni pozzetti. Ho visto il luogo, non gli scavi. Ho visto i guerrieri esposti a Cagliari e tre volte sono stato a Li Punti.
Rileggendo le critiche che mi vengono avanzate, capisco solo che la reciproca comprensione è una chimera. Ad esempio Francesco Maxia mi obietta che non sia possibile che tutto “questo ben di dio” sia stato buttato in discarica. Ma questo è un giudizio soggettivo ed enfatico. Per il contadino era solo un “mal di dio” e forse lui stesso l’ha buttato in discarica per spietrare il terreno. Può essere stato un “mal di dio” anche per gli scalpellini…
Lo stesso Maxia mi chiede lumi sulla scelta del luogo. Pur non capendone la finalità o come si relazioni all’ipotesi che ho avanzato posso dire di una categoria che il luogo debba possedere: essere più in basso della cava. Anche la discarica è preferibile che sia più in basso del luogo di lavorazione. Spero di non dover spiegare perché! I reperti delle statue sono più in basso della cava e la discarica più in basso delle tombe. Estratto il masso da cui ricavare la scultura, si può agire o sbozzando il masso in cava per rendere più agevole il trasporto (perciò nasce la stereotomia) o trasportando il masso -o il masso sgrezzato- laddove troverà posto in opera. Il posto di collocazione della statua finita è la dove c’è già la presenza delle tombe, che sacralizzano il luogo. E’ un luogo che presumibilmente si voleva fosse meglio identificato, con un tempio, con una più forte consacrazione, o migliore riconoscimento. C’è già un’area sacra, non profana. Perché non lì?
Mondazzi pensa che la statua possa essere stata scolpita in piedi, proprio perché, a causa della sua fragilità scultorea (attenzione, non solo statica) non è facile spostarla sul fianco o rigirarla. Comunque non è facile nemmeno l’operazione scultorea pur con la statua in piedi. Si pensi solo ai colpi necessari con la subbia per la sottrazione di materiale, fragile, per le parti libere e sottili, come uno scudo, un arco o il braccio guantato libero! Immagino che le ultime due statue venute alla luce nel 2014 -per intenderci quelle col bubbone cangeroceno che Minoia definisce “scudo avvolto”- non mi si venga a dire che siano state finite, o che gli scultori hanno anticipato il “Non –finito” di Michelangelo o Rodin. Sono appena sbozzate e pronte ad essere rifinite. Ma sono già rotte alle caviglie. Cosa te ne fai? Le butti e provi con un’altra, cercando di far tesoro dell’esperienza negativa.
Se anche i successivi tentativi non approdano al risultato, rinunci.
Certo, ho anch’io un sacco di domande senza risposta. Una che mi intriga è come sia possibile possedere strumenti di ferro (subbie, scalpelli, sgorbie, gradine) a detta dei due scultori, così raffinati da permettere particolarissime lavorazioni con risultati così problematici, in primis quelli statici, con carichi dissimmetrici rispetto ad una base risibile che se sollecitata appunto con carichi eccentrici si rovescia spezzandosi nei punti deboli. La risposta a questo problema è una sola: la Sardegna ha preceduto di secoli la scultura mediterranea, pur non essendoci la minima traccia nei ritrovamenti archeologici di strumenti scultorei così avanzati, né di statue simili, né prima, né dopo. Mi chiedo se sia più attendibile questa risposta o quella da me ipotizzata? Ma il mio tentativo nei casi migliori non viene nemmeno giudicato, normalmente è ascritto alle stronzate di Laner. Ovvio che mi piacerebbe che qualcuno entrasse davvero nel merito e mi facesse domande o mi fornisse risposte o segnalasse errori nella logica del mio pensiero.
Mi si facciano dunque obiezioni più pertinenti, che sono tali se si ha in mente una alternativa.
Invece ci si bea sulla produzione scultorea di una “ragguardevole civiltà”, quale? Quella fenicia, quella nuragica o quale altra?
È davvero così strano o folle pensare che i nuragici, nei loro viaggi, si siano portati qualcuno per farsi scolpire i guerrieri? O che altri -esterni- abbiano tentato di identificare la loro presenza con i guerrieri? Ci sono nell’Isola precedenti o posteriori casi di simile statuaria, o meglio di una cultura o scuola in questo senso?
Anche Adriano -il più grande fra gli imperatori- per la sua villa volle solo architetti, maestranze e soprattuttoscalpellini orientali. Anche gli stupendi marmi della Villa vengono dall’oriente. Ne è stato sminuito per questa scelta?
Infine potrei intervenire in Maymoni blog, visto che sono chiamato in causa. Non mi considero degno, sinceramente, di entrare nel “salotto” buono. Non ne ho il linguaggio, lo stile, l’educazione. Nel blog di Mauro mi sento a mio agio. Se sostengo che nelle statue di MP non vedo arte, né fenomenologicamente (v. Husserl o Merleau-Ponty) né emotivamente, vorrei poterlo dire senza essere sbeffeggiato.

Oltrettutto se il maggior artista scultore sardo e non solo, invita a guardare altrove, in Sardegna, per trovare l’arte e lasciar perdere MP, non mi sento in cattiva compagnia. Dove ho visto l’arte mi sono prodigato ad esaltarla e a valorizzarla, come per S. Cristina, qualche nuraghe, come Is Paras, meglio Su Idili, di Isili, o Santu Antine -viceversa giudico modesto Barumini e demenziali i rifacimenti arbitrari del monumento- o qualche eccellente Tdi G. o l’emozione degli antropomorfi. Ancora invito a considerare che sto parlando di architettura e arte, non di archeologia, retta da altre categorie. E presuntuosamente dico che un po’ di estetica, per mestiere e curiosità, l’ho metabolizzata.

mercoledì 13 gennaio 2016

Né arte, né magistero nei reperti di Monte Prama


di Franco Laner

Quelle che seguono vogliono essere alcune osservazioni a seguito della "perizia" Brevi considerazioni tecniche sulle sculture “Giganti di Mont’e Prama” del prof. Raffaele Mondazzi, Torino  dic. 2015.
(vedi:  http://pierluigimontalbano.blogspot.it/)

 Ho usato la parola  “perizia”. Non sia intesa in modo riduttivo, ma nell’ampiezza della sua accezione. Infatti il carattere dell’attenta disamina del prof. Mondazzi, è volutamente “neutro”: il prof-scultore scrive ciò che vede, ciò che la sua competenza gli suggerisce e si astiene da giudizi e pareri.
Mette in condizione altri di trarre conclusioni, proprio come dovrebbe essere compilata una “perizia” di tribunale!
A ben leggere, considerato che è difficile staccarsi completamente dall’oggetto in esame, c’è, accanto all’asetticità  tecnologica, anche l’interpretazione, come quando il prof. conclude la disamina con l’immagine di una “Dea Madre” neolitica (quella di Decimoputzu), che giudica di “eccessiva bellezza” quasi a dire: “Se vogliamo parlare d’arte possiamo farlo per questa Dea, per i Giganti di Mont’e Prama sospendo il giudizio. Non vedo arte!”
In un recente colloquio con Pinuccio Sciola, anche il Maestro mi ha risposto con un simile, secco, giudizio:
“Mi addolora vedere l’accanimento e l’esaltazione dei media sui Giganti, modesti e nemmeno sardi. L’attenzione andrebbe spostata a valorizzare altri e più importanti prodotti dell’arte nuragica, ivi compresa l’architettura dei pozzi, dei nuraghi, delle tombe di giganti”.
Sulla questione Sciola e valore artistico delle statue, tornerò con un prossimo post.
Attenzione comunque, non sto parlando del valore documentale e archeologico dei guerrieri di MP!
L’osservazione del professor Mondazzi sugli attrezzi per scolpire di diversa tipologia e uso di ferro, pur non chiudendo del tutto a qualche impiego di bronzo o pietra dura, fa pensare ad uno scultore molto “attrezzato”, non agli esordi. D’accordo che gli strumenti da soli non fanno maestria, ma si presume che almeno chi li usa sappia fare il suo mestiere, non solo scolpire una statua, ma soprattutto scolpirla affinché stia in qualche modo in piedi! Qui concorda in toto con il giudizio di Peter Rockwell (v. “Le sculture di Mont’e Prama – Conservazione e restauro”, Gangemi editore, Roma, 2014)
Questo tema costringe il prof ad ipotizzare tre appoggi (manca però traccia del terzo), perché le due caviglie non hanno sufficienza strutturale. Ipotizza anche un aggancio ad un sostegno verticale. Possibile. Anche per Rockwell. Comunque non c’è alcuna prova certa che i guerrieri siano stati messi in piedi, pur nell’ovvietà che siano stati scolpiti per stare in piedi!
Alcuni anni fa ipotizzai che la verticalità dei guerrieri sarebbe stata possibile se i guerrieri fossero stati “compressi” da un carico superiore (esempio trave caricata sopra la testa) e mi convinsi della loro funzione di telamoni, anche a causa della loro mancanza di plasticità e per la loro staticità scultorea, priva di valore estetico (attenzione, non ne nego l’importanza e valore documentario), tozze e disarmoniche.
Ora, dopo il rinvenimento degli ultimi due guerrieri (2014), quelli che il soprintendente Minoia definisce guerrieri con lo scudo avvolto (ci voleva un’altra tipologia di pugilatore con scudo, inaudibile quanto inverosimile, dopo quella del pugilatore con lo scudo sopra la testa!) sto pensando che nessuna delle statue scolpite siano mai state messe in piedi. Entrambi i guerrieri dello scavo 2014 hanno già le caviglie rotte, ancora in fase di lavorazione iniziale di sbozzatura.
Anche qui i due scultori e storici, Rockwell e Mondazzi concordano. Si chiedono come le statue potessero stare in piedi, proprio per elementari leggi di statica Su due appoggi, e per di più sottili, le caviglie, non v’è dubbio che serviva un terzo punto di sostegno!
Ecco perché avanzo l’ipotesi che il ritrovamento di Mont’e Prama sia il ritrovamento di un “laboratorio” di scultura abortito.
E’ il ritrovamento di una scelta azzardata e velleitaria, condannata da subito all’insuccesso e quindi all’abbandono, in discarica.
Sottrarre dalla massa calcarea, vulnerabile, la materia per lasciare parti esili, come lo scudo, l’arco è una operazione difficile e rischiosa, per me impossibile. Ma anche per Mondazzi, che cerca invano l’altra soluzione, che sarebbe quella di appiccicare queste parti al corpo, cozzando contro un’altra realtà: non è dimostrabile l’uso del trapano!
Alcuni guerrieri sono stati portati ad un buon compimento di finitura, ma al momento della loro messa in opera, o pronti per il trasporto, le caviglie hanno ceduto. Altri tentativi hanno seguito la sorte di quelli già ammucchiati in discarica, altri, incompiuti e appena sbozzati, sono stati lasciati in loco (i due pugilatori con lo scudo avvolto del 2014 sono un chiaro esempio!).
Il ritrovamento della “discarica” (la definizione è dell’archeologo del primo scavo, Carlo Tronchetti) coi 5280 pezzi è un coacervo di frammenti.
Il primo ritrovamento è stato un enigma, senza alcun precedente, o riferimento. Lilliu e compagni l’hanno impreziosito con frasi esaltanti e di effetto, col facile paragone ai bronzetti guerrieri, in sintonia con la certezza militare nuragica e l’auteferenzialità interpretativa, integrando il tutto con quell’ “aiutino” di messa in bella che confermasse l’interpretazione e rendesse esibibili i reperti.
Per questo argomento il prof. Mondazzi si lascia andare ad un accenno di giudizio. Non è una novità -scrive- che i reperti, per essere mostrabili, abbiano sempre, storicamente, subito quelle aggiunzioni, protesi e sottrazioni, tali da renderli più facilmente comprensibili, in particolare ad un pubblico di bocca buona. In pratica giustifica un possibile “ritocco”. Il “ritocco” è certo. Il problema è quanto questo ritocco sia stato “profondo” e interpretativo!
Già Margherite Yourcenar in “Il Tempo, grande scultore” aveva mirabilmente scritto sul desiderio di rimettere in buono stato un oggetto rinvenuto. Ad una statua mutila si aggiungevano gli arti e gli sfregi venivano ricomposti, spinti dal bisogno di ricreare ed esibire una statua completa. Grandi collezionisti di cose antiche hanno restaurato per pietà o spinti dalla semplice vanità del possesso.
Ciò che il primo scavo consentiva di esporre, due teste, un torso, il braccio dell’arciere, i piedi sul piedistallo, la mano che tiene l’arco, fu esibito al Museo di Cagliari. Dopo quarant’anni si consolida, attraverso l’uso ideologico dei resti giganti (giganti perché appena maggiori della scala 1:1), l’esaltazione di nuovi primati di una Sardegna, ormai uscita dalla “vergogna di sé” (Placido Cherchi), primatista nel Mediterraneo anche nel campo della statuaria. Va così che in Sardegna la scultura precede di qualche secolo la Grecia! Le statue dei guerrieri sono infatti ufficialmente datate nel nono secolo a. Cr., senza alcuna prova attendibile, comunque due-tre secoli prima della statuaria greca!
Da qui il clamore dovuto ad una esaltazione collettiva che passa anche attraverso l’uso strumentale dell’archeologia, a costo di rasentare il ridicolo con l’esibizione di una sorta di Frankenstein, ricomposto con pezzi adespoti, tenuto in piedi da protesi metalliche, con disarmoniche proporzioni, dove più che i pezzi autentici trionfano il cemento e le resine, che consentono di attaccare e mostrare una scudo in testa di un fantomatico pugilatore.


Museo di Cabras. Pugilatore con lo scudo avvolto, secondo la definizione del soprintendente Minoia. Fra questo reperto e i precedenti la distanza è abissale. O meglio la statua è sbozzata, pronta per sottrarre ulteriore materia dal blocco che contiene il braccio sinistro e forse uno scudo e procedere alle finiture. Ma le caviglie sono già spezzate e quindi inutile procedere. Il progetto è fallito, abortito. Qualcosa non ha funzionato.


Le discrasie che gemmano da questo coacervo di archeologia, ideologia, primati e interpretazioni porta al ridicolo. Il Soprintendente Minoia assume il nono secolo come periodo di realizzazione dei guerrieri. Poi data al terzo secolo la loro distruzione da parte dei Cartaginesi (?). I guerrieri rimangono dunque per sei secoli a guardia dei pozzi di sepoltura e altri 23 secoli sotto terra e da li escono teste ben levigate…Dapprima il calcare, tenero e sensibile è esposte agli attacchi atmosferici e soprattutto agli aerosol trasportati dall’adiacente stagno di Cabras, poi agli attacchi del terreno che li copre e corrode e infine voilà, ecco due teste magnificamente conservate ed esibibili!
Ora si costruisce un Museo.
Un Museo, in Italia, non si nega a nessun Comune.
Un Museo significa posti di lavoro e, viste le risibilissime entrate, assistenza continuativa statale.
Un Museo costruito per esibire una ipotesi.
Un Museo del dubbio e dell’incertezza, dove per certo, almeno l’Arte, è assente.

Franco Laner

Venezia, 12 gennaio 2015

giovedì 7 gennaio 2016

Aba Losi, Gigi Sanna e il Maymoniblog


di Mauro Peppino Zedda

Maymoniblog è un sito dedicato a sostenere le fantasmagoriche tesi paleoepigrafiche del Professor Luigi Amedeo Sanna, noto Gigi.
La leader morale del fantablob è Aba Losi, professoressa di Biofisica nell’università di Parma, alias Atropa Belladonna o Mamasarda come amano definirla gli aderenti al fantablob.
È la più autorevole sostenitrice mondiale delle tesi paleo epigrafiche del Professor Luigi Amedeo Sanna.
Il demenziale nomignolo Mamasarda è una creazione di Esso. Esso venera Mamasarda, la considera un’eroina in lotta per il riscatto culturale dei sardi contro i perfidi e terribili feniciomani.
Mi è difficile comprendere perchè mai Aba Losi vada in un brodo di giugiole quando Esso la  chiama affettuosamente Mamasarda. Questione di gusti!
Oltre alla devozione di Esso, Mamasarda viene incondizionatamente idolatrata da Grazia Pintore. Questa signora si è sobbarcata il non facile compito di sollevare il morale di Mamasarda & Company inondandoli di  complimenti ad ogni loro perfomance.
Poi c’è Francu Pilloni un simpatico maestro in pensione che si diletta in racconti, anche lui adoratore di Mamasarda, ma soprattutto sostenitore di Sanna, un sostegno che non trascende nell’adorazione. Anzi sembrerebbe che i suoi complimenti a Sanna rientrino nell’ambito della reciprocità, Pilloni dice a Sanna che è un grande paleoepigrafista e Sanna contraccambia dicendo che Pilloni è un grande letterato! Insomma si complimentano reciprocamente! D’altronde le distanze tra i due sono più apparenti che reali, Sanna favoleggia sulla scrittura nuragica e Pilloni si diletta a scrivere favole.
Nella comitiva non poteva mancare il personaggio logorroico e noioso, questo ruolo lo interpreta con insuperabile maestria Francesco Masia che ha le stimmate dello strizzacervelli, ma assomiglia di più ad un azzeccagarbugli! Raramente riesco a concludere la lettura di uno dei suoi logorroicissimi commenti, anche perché oltre ad essere logorroici non vi è niente di interessante. Poverino, talvolta si è lamentato perché non gli rispondo, ora saprà perchè!
Infine Sandro Angei, il Delfino di Sanna, il suo allievo prediletto, colui che pare essere il predestinato a prendere il posto del maestro… Spero il più tardi possibile!
Angei è uno tosto, convinto, ambizioso, testardo e temerario, oltre a saper maneggiare la scrittura inventata da Sanna riesce pure a elaborare programmi in 3D finalizzati a poter dire (la dimostrazione è un optional) che le camere dei nuraghi sono delle macchine astronomiche!! Angei col suo infallibile programma in 3D simula la luce che entra dal finestrino situato sopra l’architrave e, oplaaa… il gioco è fatto, la camera del nuraghe diventa una perfetta macchina astronomica!!  Che Angei non conosca un fico secco di astronomia sferica non è un problema! Non ha la benché minima idea di come possa essere strutturata una macchina astronomica, ho provato a spiegaglielo ma non sono riuscito a fargli capire che non basta un finestrino in una camera per ottenere una macchina astronomica.
Angei, forte della sua professionalità nel gestire programmi in 3D  spazia con disinvoltura da una dimensione all’altra passando dalla fantaarchelogia alla fantastronomia e soprattutto alla fantaepigrafia! Un fantatuttologo di prima grandezza! La sua esuberanza cerca di tenerla a freno lo stesso Professor Luigi Amadeo Sanna che spesso lo richiama alla prudenza scientifica, ricordandogli di non esagarare con l’immaginazione! 
Ve la immaginate l’immaginazione di uno a cui Sanna dice di non esagerare con l’immaginazione?
Del Maymoni blog il leader maximo è il Professor Luigi Amedeo Sanna, il quale vanta un ottimo curriculum maturato come insegnante di Greco e Latino, ha un’ottima padronanza dell’italiano e del sardo e ho avuto modo di constatare che se la cava  benissimo anche mangiando il proceddu arrosto!
È un piacere seguirlo nelle sue acrobazie paleo epigrafiche, è innovativo e geniale, ohhh, non è da tutti riuscire a leggere il nuragico in una fibula bizantina! Trova sempre la soluzione giusta. Se un’epigrafe non riesce a leggerla in un verso la decifra nell’altro. La scandaglia in tutte le direzioni da destra a sinistra, o dall’alto o dal basso! È uno spettacolo osservare come trova sempre la soluzione ad hoc! Se non la trova in senso lineare cardinale non si arrende, ecco dunque che la scandaglia pure in diagonale e se non basta la cerca pure con una lettura a zig zag! Meraviglioso! Una delle sue più spettacolari scoperte l'ha fatta in quel di Mistras, in un pozzo moderno è riuscito a scoprire che quella che a noi comuni mortali pare essere una data, ovvero 1942 (magari incisa dal costruttore del pozzo), in realtà corrisponderebbe ad una iscrizione nuragica! Stupefacente! Come fa? Com’è che riesce a decriptare ogni cosa, anche i fori di un brassard? Semplice è una questione di metodo, quando la soluzione non riesce a trovarla con i metodi più tradizionali c’è la soluzione finale, la lettura a rebus! Con questo metodo il Professor Luigi Amedeo Sanna riesce a decriptare qualsiasi oggetto!

Insomma è tutta una questione di metodo!

La luce del Toro

di Franco Laner 

recensione al libro dei GRS
La Luce del Toro
PTM editrice Sett. 2011, Mogoro

Riprendo dagli appunti che annotai alcuni anni fa su questa pubblicazione di autori diversi, fra cui Alessandro Atzeni, che mi onora delle sue attenzioni, definendomi “mistico”: Il discorso si applichi anche al suo collaboratore (di Mauro Zedda) F. Laner, il quale ogni giorno non manca di ricordare di essere il vero scopritore di non si sa cosa, solo per aver visto e pubblicato una foto delle dimensioni di un francobollo (figura 28) con una didascalia striminzita in “Accabbadora” (1999) che testualmente, riporta: “il sole penetra nel nuraghe attraverso la finestrella che staglia la sua mobile figura nelle pareti della camera” (falso, non possono essere le pareti di camera, si veda sotto) mentre nel testo, in maniera assai sbrigativa, scrive in merito: “mi convinco che sia solo suggestione”, riferendosi ad una luce vagante decontestualizzata, senza orario, dati archeoastronomici o misure dell’interno del monumento o qualcos’altro di utile, oltretutto aggiunta solo dopo la pubblicazione del nostro libro del 2011, “aggiustata” in Sa Ena come “Ierofania” e come “sole-toro” o “testa taurina”, senza tuttavia associare dati sensibili, secondo una sua abitudine nel dilungarsi in monologhi intrisi di misticismo, coniando di continuo inutili neologismi, ma rimanendo comunque nel dubbio di una sua possibile suggestione
(da Mymoni blog del 5 gennaio 2016)
Osservo solo che “Sa ‘ena” è stato pubblicato nel febbraio 2011, mentre “La luce del toro” sette mesi dopo. Comunque se avessi letto tale libro e me ne fossi servito, l’avrei citato, perché un punto fermo della mia personale etica di docente e studioso è quella di citare sempre le fonti, sia perché non costa nulla, sia perché è gratificante e non riduttivo citare chi ti ha dato.
Nell’introduzione al libro (pag. 10 e 11) dove si parla di costruzione di nuraghi si  contesta l’ipotesi costruttiva di “alcuni architetti”. Quali? Non conosco nessun architetto -oltre al sottoscritto- che abbia parlato di archi orizzontali -meglio, stati di coazione- per realizzare la cupola autoportante e soprattutto aprirla in sommità, senza avere la necessità di chiuderla con il concio di chiave, che nelle cupole di rotazione è indispensabile.
Per criticare questa teoria costruttiva, frutto di ricerca e sperimentazione, che ha uguale concezione nella realizzazione dei trulli, dei rifugi dei pastori abruzzesi, fino alla cupola di S. Maria del Fiore del Brunelleschi, ci vuole un genio o un cretino. Ma se chi critica  non possiede nemmeno il lessico costruttivo -non pretendo la concezione strutturale- mi trovo impotente. A pag. 135 e 136 si definisce ad esempio per ben due volte, quindi non è un refuso,l’architrave d’entrata  come masso “a sbalzo” orizzontale. L’architrave non è a sbalzo, bensì è appoggiata, mentre a sbalzo è una mensola. La scienza delle costruzioni non è un parere, è una disciplina che ha i suoi fondamenti e se si vogliono ridiscutere, lo faccia, ripeto, un genio o un cretino. Forse per il GSR “mensola”, “sbalzo”, “coazione”… sono neologismi da me coniati.
La critica allo stato di coazione orizzontale è banale. L’autore, il GRS, quindi tutti e nessuno, asserisce di conoscere nuraghi crollati a metà e quindi gli archi orizzontali sono interrotti. Anch’io posso portare ad esempio arcate di ponti rotte, con semiarchi a sbalzo. Dovrei con ciò negare la teoria classica dell’arco? O non piuttosto tener conto dell’attrito e di equilibrio precario?
Prendo atto, sono sempre nell’introduzione, che finalmente si usa per i nuraghi l’aggettivo ciclopico e non megalitico. A questa distinzione, estremamente importante sul piano speculativo, avevo dedicato una scheda in Accabadora ed in Sa ‘ena ho potuto ipotizzare la costruzione del dolmen di Paule s’iscudu, grazie proprio al valore concettuale della distinzione fra ciclopico e megalitico.
Nell’introduzione si parla anche di modellini di nuraghe. Ho dedicato un capitolo di Sa ‘ena a questa questione e non voglio entrare nel merito. Mi dispiace che delle mie cose si prenda solo ciò che fa comodo.

Cap. I. Riassunto acritico e compilativo. Non serve nulla. Critiche al nuraghe-fortezza già avanzate da altri autori. Nulla di originale.
Cap. II. Come Cap. I. Ma con aggravanti, perché sembra che le critiche al nuraghe fortezza siano scoperte del GRS, invece basta rivedere qualche numero di Sardegna Antica. Inciso: peccato che non si citi chi si è rotto le scatole, in tempi difficili e non sospetti, a criticare feritoie, palle litiche, chiusura della porta d’entrata. La citazione non è mai una diminuzione, anzi..! Soprattutto sui modi di chiusura della porta del nuraghe ho più volte descritto la discrasia e durante i convegni ho più volte sollecitato gli archeologi a dirmi come si chiudeva la porta del nuraghe-fortezza, ironizzando sull’ipotesi del masso alla Hanna e Barbera!
Infine si apra a pag. 45. Qui ammetto di essere un pochino antipatico, perché osservo che la pagina sia un capolavoro di ingenuità. Qualsiasi sia la pretesa del libro, scientifica, divulgativa, .. le figure che si prendono dai libri, si devono riportare fedelmente con citazione. La fig. A, nell’originale (rilievo di A.Benetti) è corredata da sezione, dalla scala (del disegno) e soprattutto dall’indicazione dei punti cardinali (il Nord). Nei disegni del libro non c’è mai l’indicazione del Nord. Grave per un libro che parla di orientamento. Per di più ci sono solo piante, mai sezioni o prospetti. Mai un particolare delle finestrelle o una loro sezione. Il disegno di fig. B ,desunto da A, rovesciato, tanto per dire dell’incuria dell’orientamento, senza scala (le scale, quattro, ci sono, ma forse sono per le galline, tanto sono ripide), mi induce a dire che bisogna imparare anche a copiare e soprattutto va lasciata da parte la ridondanza del “delineavit”, che io leggo come “scarabocchiavit”.
Cap. III   Riassunto del culto evolutivo del sole nella storia e nel mondo, con l’osservazione finale che “la Sardegna, come in un prezioso scrigno, conserva la testimonianza di tutti i passaggi di questa evoluzione.” Bene, ciò che è stato detto, in Sardegna c’è. Non si è mai fatta mancare niente!
Cap IV Descrizione pedo-auto-morfologica del territorio del S. Barbara. Ma non ho capito la relazione del S. Barbara col territorio. Meglio una cartina dell’IGM, almeno ci sono le isoipse.
Cap. V Dovrebbe essere il cuore del lavoro. Ma il rilievo fotografico, è compilativo. Mancano punti di stazione, indicazioni metodologiche del rilievo, didascalie alle foto, spesso utili a fini turistici, ma criptiche per uno che voglia capire. Servirebbero sezioni. O l’azimut è un optional? Il paragone col disco solare (?) di Arzachena con la pianta del S. Antine (?) è una grande scoperta: ora abbiamo anche le piante (non sto parlando di mirto o rovere, bensì di sezioni orizzontali di un edificio) dei nuraghi! Non bastano i modellini. Ora vien fuori che il nuragico disegnava (modellava) le piante! Le sezioni dei nuraghi le avevamo già:  il prof. Contu scrisse che la stele della TdG era la sezione del nuraghe.
In sintesi è un lavoro compilativo, privo di inferenza e utilità per chi voglia capire o verificare.
La finestrella è realizzata lasciando il vuoto fra due pietre. La rotondità delle pietre dà luogo proprio alla figura a clessidra citata nel libro. Se vogliamo a due tori simmetrici rispetto alla mezzaria della figura. Se i conci fossero squadrati, il vuoto della finestrella sarebbe un rettangolo. La luce che entra può stagliare, a seconda dell’inclinazione, la metà superiore della clessidra, oppure quella inferiore, oppure un quarto. Si avrà così un toro diritto, oppure uno rovescio. La domanda da porsi e da discutere: è ciò casuale o voluto? Ora osserviamo queste proiezioni di luce, altro conto è quello di riuscire a dimostrare che chi costruiva i nuraghi pensava di realizzare questo fenomeno. Perciò, pur meravigliato ed emozionato, ho parlato di suggestione nei miei due libri.
Per confronto, per favore, si guardi alla ricerca di Lebeuf  sostenuta per dimostrare che il camino del pozzo di S. Cristina funziona come osservatorio lunare. Confrontate l’apparato costruttivo, confrontate i rilievi numerici ed astronomici. O con due foto al solstizio si può sostenere qualcosa, solo perché il fenomeno si ripete? Non ricordo di chi fosse la citazione, ma anche un orologio fermo, due volte al giorno è esatto!
Cap. VI  Il metodo compilativo-descrittivo fotografico viene esteso anche ad altri monumenti.
Cap. VII Sono ancora inchiodato al disegno di pag. 133. Lasciamo perdere la folgorazione sulla strada di Damasco (pardon, sulla strada di S. Barbara) e si guardi il toro, quello vero, sulla destra che la femmina tocca e così la sua forza, calore, sangue, divinità e quant’altro passa attraverso di lei che con la mano sinistra si struscia la mona…

Non ce la faccio più ad andare avanti. Si intrecciano fantasia (parte patologica dell’immaginazione) osservazioni gratuite e banali, della serie : “la torre è un cerchio (è un cilindro, boia di un mondo!) simbolo universale per descrivere il sole”…oppure… pag. 99 : risulta evidente….che questi fenomeni sono da adorare…
Ora apprendo che oltre a cose e dei, si adorano i fenomeni! e ancora: i nuragici riuscirono a suddividere l’anno in 4 stagioni, con solstizi ed equinozi, come ora.. Un calendario un po’ pesante (stanza del sole), ma forse sempre meglio della pintadera-calendario di Nicoliniana memoria.
Troppo banale uno gnomone! O un palo conficcato…
Provo a leggere ancora: il bronzetto musico. No. No!!!Mi arrendo. Avete ragione. Sotto tortura, perché è così se proseguo la lettura, capisco che sia ora di ammettere. Ammetto di aver detto il falso, per invidia, per antipatia, per cattiveria, perché sono uno stronzo. Credo che i nuragici abbiano toccato i vertici della genialità creativa simbolica. Ho partecipato ad un momento scientifico sublime. Non ho mai parlato di ierofania e tempo ciclico. Anzi non sono mai venuto in Sardegna. ABIURO. Ma allontanate da me questo libro!
Non sum dignus!
Franco Laner

mercoledì 6 gennaio 2016

Le stelle del Centauro e i Nuraghi


di Mauro Peppino Zedda

Nel post precedente Franco Laner mi chiede di convincerlo sul fatto che l’orientamento dei nuraghi fosse diretto verso una costellazione, piuttosto che essere conseguenza di quanto da lui proposto in Accabadora (1999) e oggi  in questa sede.
L’ipotesi di Franco si basava sui pochi orientamenti proposti da Provervio che presentava un range diverso da quello emerso dalle mie ricerche.


Nel  grafico, tratto da Astronomia nella Sardegna Preistorica (2013),  vi è rappresentata la distribuzione degli orientamenti di 540 ingressi di monotorre e torri centrale dei nuraghi complessi.
Il picco principale guarda al sorgere delle principali stelle della costellazione del Centauro-Croce del sud, una costellazione che conta 3 delle 12 stelle più luminose del cielo, il picco secondario al tramonto delle stesse!
Ma quella che mostra il grafico non è la situazione standard dell’intera Sardegna, nella parte settentrionale dell’Isola gli orientamenti rivolti al tramonto sono rari. Esistevano due Sardegne simili ma non identiche, che emergono anche dalle  differenze stilistiche che caratterizzano i nuraghi.

Per maggiori dettagli vi rimando al libro.

Non confondere le cause con gli effetti


di Franco Laner

Riprendo -a proposito dell’orientamento dei nuraghi- quanto già esposi nell’occuparmi di alcune questioni costruttive dei nuraghi e in particolare il tema dell’orientamento dell’entrata, con una introduzione che deriva da come ho spesso inteso i miei studi di storia della tecnica.
Spesso, occupandomi appunto di storia delle tecniche costruttive, mi sono intestardito su alcuni problemi ancora senza risposte soddisfacenti, su cui molti studiosi si sono confrontati. Ad esempio come costruire una cupola a secco, senza impiego di centine, oppure come trasportare grandi pesi e come sollevarli. Temi che hanno profondamente ed incessantemente occupato la mia mente per mesi. Senz’altro ho capito cosa significhi ossessione e come un pensiero costante possa diventare pericolosa paranoia! Ma è grande anche la soddisfazione che si prova nel presentare soluzioni concrete e semplici, come quando venni a capo delle modalità di sollevamento del monolite di 230 tonnellate che copre il Mausoleo di Teodorico a Ravenna, oppure dell’intuizione del sistema cuneo-leva per il trasporto dei grandi pesi da parte degli assiri o ancora quando chiarii l’arcano sotteso al ponte di legno che Giulio Cesare ordinò nel 55 a.Cr. per passare il Reno!
Ogni volta la soluzione è arrivata solo quando sono riuscito a riformulare il quesito!
Faccio un esempio.
Durante una ispezione nel ’92 alla copertura lignea del Teatro La Fenice a Venezia. viene segnalata una preoccupante lesione di un componente -il monaco- di una grande capriata. Non c’erano state sollecitazioni improprie né alcun evento anomalo che potesse giustificare tale rottura in esercizio. Investito del problema, la ricerca della soluzione mi tormentò parecchio -era in ballo la mia credibilità di esperto di costruzioni di legno e per di più a Venezia dove insegno!- la soluzione arrivò evidente riformulando la domanda. Quando si è rotta la trave? E se fosse stata messa in opera già lesionata?
Scoprii così che durante l’abbattimento, l’albero può cadere su un dosso o in un avvallamento e subire lesioni che si ricompongono data l’elasticità del legno fresco e la mancanza di carico.
Subito dopo il trauma, il tronco viene segato, squadrato e posto in opera senza che ci si possa accorgere della rottura! Ciò succede una o due volte su mille alberi tagliati!
“E’ possibile mettere in opera una trave già rotta?”è quasi la stessa cosa che domandarsi perché il monaco si fosse rotto. Ecco, quel quasi fa la sostanziale differenza!
La soluzione di molti problemi sta proprio in quel quasi, che però è inversamente proporzionale alla difficoltà. Ovvero più è sottile quel quasi, più difficile è la soluzione, perché non è affatto facile formulare bene la domanda!
Ebbene, un interrogativo ricorrente fra coloro che si occupano di nuraghi e che li conoscono è il seguente: “Come mai l’ingresso del nuraghe è generalmente (statisticamente significativo) rivolto nel quadrante sud-est, anzi intorno a 148° ? “
Le risposte degli studiosi, quando hanno capito che l’iterazione tipologica non poteva essere casuale, è stata di ordine pratico o simbolico. Giovanni Lilliu ha osservato che in questo modo l’entrata si oppone alla direzione del fastidioso maestrale e dunque fosse un modo per difendersi dall’evento. Altri hanno ipotizzato che dipendesse dal fatto di avere il miglior irraggiamento solare, altri che in quella direzione c’era una stella o costellazione particolarmente simbolica o significativa.
Se ci si accanisce a voler rispondere al perché l’entrata è orientata in quella direzione non se ne viene a capo. Ma se sposto appena la prospettiva e mi chiedo se questa evidente ricorrenza non sia conseguenza di altra necessità, ovvero un semplice corollario, forse se ne può venire a capo. In altre parole, nemmeno il costruttore sapeva che l’apertura fosse in quella direzione, perché per lui non era quello l’obiettivo! L’ingresso è in quella direzione in quanto effetto, non causa prima, dell’atto fondativo. Non è qui il caso di richiamare l’importanza del tracciamento delle fondazioni di un edificio, la presa di possesso del suolo, la sacralità del gesto e le intenzioni sottese al suo orientamento. Importanti punti di riferimento congelati nel nuraghe e sottolineati dalle nicchie spesso presenti, sono la nascita del sole al solstizio estivo e il tramonto al solstizio invernale che si trovano sullo stesso asse inclinato di 58°. Tracciato questo fondamentale asse, se si procede alla divisione in quattro parti dello spazio -orientamento- l’altra nicchia e l’entrata si troveranno sull’asse 58° + 90° = 148°. Non mi si obietti, per ora, la divisione in quattro parti, atto primo di cosmizzazione del territorio e dello spazio, tema che ha caratterizzato la mia ricerca sul nuragico.



Sta di fatto che ogni nuraghe, ugualmente orientato, anche se mi è sconosciuto, offre le stesse informazioni di orientamento spaziale e temporale. Ad esempio, la luce della finestrella sopra la porta che entra nel buio della camera, potrebbe essere una  indicazione temporale valida per tutti, non solo per chi l’ha costruito.
Con questa spiegazione, o se vogliamo, con questo modo di porre la questione, l’enfasi dell’enigma sul comune orientamento dell’entrata ai nuraghi, si sgretola e perde di importanza e la speculazione, caso mai, si sposta sulle asserzioni -atto fondativo, importanza dei solstizi, capacità di divisione del terreno- richiamate per dar risposta al quesito che da principale diventa semplice corollario.
Teoricamente dovremmo dunque avere 148°. In pratica se prendo come riferimento la nascita del sole al solstizio d’estate nel punto all’orizzonte e se all’orizzonte ho un monte rischio di riferirmi ad una nascita apparente e subito faccio un errore. Erano in grado di correggerlo? E quando oggi misuro l’asse di orientamento dell’entrata, per quanto sia sofisticato lo strumento, che senso ha una misurazione di un manufatto così indefinito come un paramento nuragico?
Di questo ho spesso discusso con  Mauro. Egli non condivide questa impostazione, ma non ha argomenti così convincenti da farmi desistere. Quando mi convincerà, cambierò idea.
Che bello cambiare idea, specie quando ti è costata fatica. È ammissione che esiste qualcosa che supera la tua capacità e dimostrazione dialettica del divenire, nel continuo sforzo di ridurre l’aleatorietà della verità. Corollario di questa affermazione? Quanto sia sciocco rivendicare la priorità di una “scoperta”, semplice step di un processo inesauribile e quanto al contrario, sia onesto (e senza costo alcuno) citare chi in qualche modo ha contribuito a ridurre i margini di incertezza di una teoria.



lunedì 4 gennaio 2016

La divinità Nuragica MERRE e il Centauro


di Mauro Peppino Zedda




In diversi articoli pubblicati in prestigiose riviste scientifiche e in più monografie (I Nuraghi tra Archeologia Astronomia 2004; Archeologia del Paesaggio Nuragico; Astronomia nella Sardegna Preistorica), si è sostenuta  l’ipotesi che l’orientamento degli ingressi dei nuraghi monotorre e torri centrali dei nuraghi complessi abbia come target principale dell’orientamento il sorgere della costellazione del Centauro, e come target secondari il sorgere della Luna al lunistizio maggiore meridionale,  del Sole al solstizio d’inverno e nella parte meridionale dell’isola anche del tramonto del Centauro.  
L’ipotesi è stata benevolmente accolta da prestigiosi studiosi, cito fra i tanti Clive Ruggles.
In questa occasione propongo un accostamento linguistico epigrafico che rende l’ipotesi  assolutamente pertinente anche da un punto di vista storico culturale oltre che matematico astronomico.
La comunità scientifica sarda dall’Archeologia alla linguistica (fra tutti leggete gli scritti di Attilio Mastinu e Massimo Pittau) riconosce che il termine MERRE inserito nella iscrizione trilingue (in punico, greco e latino), risalente al II secolo a.C., rinvenuta nel Gerrei, rimanderebbe ad una divinata indigena preistorica.
L’inscrizione trilingue spiega che un tal Cleone dedica a Eshmun Merre (in punico), Asclepios Merre (in greco), Aescolapio (in latino), un altare per una guarigione ricevuta.
Sul fatto che Merre fosse una divinità indigena di tradizione preistorica equivalente ad Eshmun, Asclepio e Esculapio, gli studiosi concordano. Questo dato ritengo sia pertinente accordarlo con un altro dato e cioè con il fatto che Il Centauro Chirone era maestro di medicina di Asclepio, controparte greca di Imhotep. Dunque non sarebbe azzardato presupporre una connessione tra la divinità nuragica MERRE e la costellazione del Centauro.
Alla luce di questi dati mi pare verosimile postulare una qualche divinità curativa preistorica mediterranea precedente alla tradizione egizia, connessa con la costellazione del Centauro, verso la quale sono orientati pure i templi maltesi e le taulas delle baleari (vedi numerosi scritti di Michael Hoskin).
 Il fatto che il Centauro, fosse maestro di medicina delle divinità curative egizia, greca, punica, latina, mi pare verosimile pensarlo connesso anche per la divinità curativa nuragica MERRE.
Queste considerazioni oltre a schiudere nuovi orizzonti in relazione ad analisi linguistiche sulla parola MERRE, rappresentano un ulteriore elemento di conoscenza sul mondo nuragico, in quanto l’orientamento dei  nuraghi verso il Centauro si collega in modo assolutamente stringente con il nome della divinità nuragica MERRE.
Mi pare che I dati e le conclusioni provenienti dalle mie analisi archeoastronomiche sui nuraghi, si legano alla perfezione  con le caratteristiche della divinità nuragica MERRE.
Con buona pace di tutti gli archeologi sardi che oltre a non riuscire ad osservare la Luna e non hanno neppure la vista necessaria a vedere il dito che la indica, poveri, non hanno ancora compreso che se non guardano in alto non riusciranno mai a comprendere il significato di quello che sta sotto!