domenica 5 marzo 2017

Perché si ricostruisce


di Franco Laner

Il tentativo di rimettere in bella ciò che il tempo ci ha consegnato -mi riferisco in particolare alla ricomposizione dei guerrieri di Monte Prama- riporta d’attualità un’altra ricostruzione di cui mi ero occupato nel 1995 (“Conci adespoti e verità negate”, Tema, rivista di restauro, n.3/1995) in cui prefiguravo come le ricostruzioni fossero negative, perché soggettive e soprattutto per l’inevitabile manomissione dei “documenti” originali.

Cos’è dunque che origina questo forte bisogno di ricostruire un’opera distrutta dal tempo o dall’uomo, in particolare anche quando siano assenti i riferimenti certi all’autentico? Questa domanda, a cui ho difficoltà a dare risposta, mi è soprattutto presente in questo periodo che sono occupato per concludere alcune indagini sulla ricostruzione dei guerrieri (“Indagini su MP” è anche il titolo del libro che vorrei concludere!).
Forse dipende, come scrive M. Youcenar (Il tempo grande scultore), dall’ingenuo desiderio di esibire un oggetto in buono stato, come porta in ogni tempo la semplice vanità dei possessori. Ma il gusto del restauro radicale di ogni opera d’arte, nasce indubbiamente da ragioni più profonde dell’ignoranza, della convenzione, o del pregiudizio di una grossolana redazione in pulito dell’oggetto degradato……di tutti i mutamenti provocati dal tempo, nessuno intacca maggiormente le statue che gli sbalzi del gusto negli ammiratori.
Alla vanità aggiungerei una mai sopita voglia di riscatto: opera o statue, come identità isolana, arte come attività primigenia e culturalmente legittimante.
O semplicemente per dare in pasto ad un pubblico distratto, immagini e sensazioni oleografiche, pur nella consapevolezza dell’inganno, quasi che il falso, la menzogna sia superiore al vero, che i pezzi adespoti, sparsi sul terreno, sinceramente e meglio rappresentano.
Chi ricostruisce, manomette. Questa considerazione merita una spiegazione e lo faccio riprendendo la ricostruzione di Su Tempiesu, fonte sacra in agro di Orune. Ovviamente più che al tempietto, il mio pensiero va alla ricostruzione dei guerrieri di Monte Prama.
Dunque nel ricostruire si manomette e si sottraggono a studi successivi altre ipotesi per restringere il perimetro della verità.
Nel caso appunto della ricostruzione di Su Tempiesu, eseguita dall’archeologa M.A. Fadda, con il benestare della collega F. Lo Schiavo, si sono commessi errori di valutazione e di interpretazione.
Ne elenco qualcuno.
Ho notato, occupandomi di altre fonti (Su Lumarzu (Bonorva), Funtana Niedda (Perfugas) Irru (Nulvi) e pozzi (S. Cristina in primis) ma anche Proedio Canopoli a Perfugas, che questi monumenti sono realizzati con filari rigorosamente isodomi. Magari l’altezza dei conci e quindi dei filari può variare, ma il parallelismo dei piani di posa viene sempre rispettato. Penso (senza fatica!) che questa regola appartenesse anche a Su Tempiesu, come si vede nella foto prima del “restauro” (1), Tuttavia è stata elusa, come si vede attualmente (2).


1.      Foto di Su Tempiesu all’inizio del “restauro”. La muratura è rigorosamente isodoma
2.      L’attuale pendenza delle falde è di 45°. Il concio apicale indica minor pendenza. Io penso che la pendenza fosse di 60°, perché avrei un triangolo equilatero. La perfezione. Ma cosa c’entra cosa vorrei io? Nel cerchio col punto di domanda si vede la confusione e l’isodomia è negata!

La nuova muratura riflette un’idea soggettiva, contraria a quella ovvia, originaria. Induce comunque a fraintendimenti: per me è falsa. Ma se fosse vera?
Un’altra questione. Se si osserva il concio apicale del timpano (3), fotografato dai restauratori (bene!) e non rimesso in opera (ancora bene!), si vede subito come l’angolo fosse più ampio di quanto suggerisce la ripida pendenza delle falde, parzialmente ricostruite.
3.      Concio apicale. La foto può ingannare, ma i 45° sono impossibili!

Prendo comunque il goniometro e misuro. L’angolo apicale del Tempietto ricostruito è di 45°!
Ma l’apertura del concio apicale è di 55° (65° l’apertura della doppia decorazione).
Come nella ricostruzione dello scudo rotondo del guerriero di MP, esposto a Cabras, i restauratori non hanno misurato gli angoli. Se avessero misurato gli angoli degli chevron dello scudo lo avrebbero ricostruito pentapartito e non quadripartito, perché non ci sono angoli  di 90°!
Mi viene un sospetto. L’archeoastronomia è incomprensibile senza la trigonometria. Non sarà che l’ostilità nei confronti dell’archeoastronomia derivi da un preconcetto goniometrico?
Accenno infine ad un’altra ben strana questione che riguarda le protuberanze mammilliformi presenti su molti conci, in particolare a T dei pozzi e fonti nuragiche, interpretati dalle archeologhe del rifacimento di Su Tempiesu come funzionali al sollevamento dei conci e una volta messi in opera, scapitozzati (ne sono stati trovati più di 30). I conci di Su Tempiesu pesano 40-60 kg., che un operaio da solo solleva (ora sarebbe proibito, perché un operaio non può sollevare più di 30kg per legge. Ricordo che i sacchi di cemento fino a 40 anni fa pesavano 50kg!). Perché fare una fatica da bestia per sottrarre materiale e lasciare in rilievo le due protuberanze? E se si mettono in due sollevano anche un quintale!
Ho una idea, forse preconcetta, ma chi ha vissuto 3mila anni prima di noi, aveva una certa idiosincrasia per i lavori inutili, esattamente come noi!
Con idee costruttive del genere, che oltre tutto negano la stupenda simbolicità del concio a T mammillato (4), sarebbe meglio lasciar perdere anche la sola idea di restauro.

4.      Concio mammillato e a T di Funtana Niedda a Perfugas

La conclusione, che vale anche per MP: e se gli archeologi facessero gli archeologi e non si occupassero di ricostruzioni?
E’ un autogol! Mi è già stato fatto osservare dai vispi archeologi, che debbo star zitto, perché non sono un archeologo.
Nell’occuparmi di archeologia, trovo godimento.
Gli archeologi che si occupano di restauro, fanno dei danni irreversibili!
L’interdisciplinarietà potrebbe essere una buona soluzione.